Walter Benjamin, racconti, drammi e alcuni saggi inediti dedicati alla radio sono stati pubblicati da Castelvecchi. Uno spaccato su un media allora emergente, ma che ha la forza di anticipare nodi problematici e temi che riguardano le attuali tecnologie della comunicazione.
Il 6 dicembre del 1934 la «Frankfurter Zeitung”, periodico tedesco di rinomata fama, pubblica un racconto dal titolo Al minuto. Il protagonista, un esperto di bibliologia, riesce a ottenere da un’emittente radiofonica un breve programma di venti minuti per presentare agli ascoltatori gli aspetti salienti della sua materia di studio. Il direttore della sezione, nel momento in cui gli conferisce l’incarico, raccomanda al bibliologo, che da lì a poco farà il suo debutto davanti ai microfoni, di attenersi strettamente a due principi: uno stile oratorio dal tono familiare e il rigido rispetto dei tempi. Il programma deve concludersi precisamente «al minuto». Da qui il titolo del racconto.
Il bibliologo, che dalla buona riuscita della conferenza si aspetta molto, tornato a casa si addestra: vocalizza il testo puntando gli occhi sull’orologio. Arrivato alla stazione radiofonica, accolto con molto garbo dall’annunciatore, è fatto accomodare in cabina. Qui, una volta entrato, osserva con entusiasmo quello che per un po’ sarà il suo luogo di lavoro, e ne apprezza tutte le risorse che tendono a mettere il conferenziere nella massima comodità: dal leggio alle poltrone, dalle fonti d’illuminazione alla possibilità di passeggiare tenendo con sé il microfono. E naturalmente, l’orologio.
A causa di una svista, il bibliologo, guardandolo, confonde le lancette dei secondi con quelle dei minuti, così, dal credere di aver finito, e di conseguenza, allontanatosi dal microfono, indossato il cappotto e pronto per andare via, passa improvvisamente alla consapevolezza di non aver terminato la conferenza, resosi conto dello sbaglio si precipita di nuovo in postazione e, con una serie di rocambolesche acrobazie vocali, colma i rimanenti quattro minuti.
Nel preciso istante in cui prende coscienza dell’errore, al bibliologo capita di vivere una singolare esperienza: «In questa camera votata alla tecnica e all’uomo che grazie a lei domina fui colto da un brivido nuovo, eppure affine al più antico che noi conosciamo. Prestai a me stesso un orecchio cui ora, improvvisamente, non risuonava incontro altro che il mio silenzio. Un silenzio che riconobbi come quello della morte, che in questo preciso istante mi ghermiva contemporaneamente in mille orecchie e in mille stanze».
Modelli per l’ascolto
L’autore di questo breve racconto è Detlef Holz, ossia, Walter Benjamin che, dall’esilio a cui era stato costretto nel marzo del 1933, in quanto ebreo e comunista, ricorreva a questo pseudonimo per poter continuare a scrivere su riviste tedesche in una Germania oramai completamente fascistizzata.
L’uscita di Radio Benjamin (Castelvecchi, traduzione di Nicola Zippel, pp. 114, euro 14) dà l’occasione per tornare a riflettere sull’esperienza radiofonica del grande autore tedesco. Su questo momento della produzione benjaminiana, il lettore italiano aveva fino ad ora altri due libri: l’avanguardistico Tre drammi radiofonici, uscito nel 1978 per Einaudi a cura di Umberto Gandini e mai più ristampato, e Burattini, streghe e briganti. Racconti radiofonici per ragazzi (1929–1933), a cura di Giulio Schiavoni (Rizzoli, pp. 387, euro 11).
I cinque testi che compongono Radio Benjamin risalgono a un intenso periodo di lavoro, a quando, cioè, Benjamin, dal 1929 al 1933, collaborava tanto con la radio di Berlino quanto con quella di Francoforte. La logica che presiede la raccolta è chiara: affiancare ai testi andati in onda e di cui era autore o co-autore – «Che cosa leggevano i tedeschi mentre i loro autori classici scrivevano» trasmesso il 16 febbraio 1932, e «Un aumento di stipendio? Ma che vi viene in mente?» trasmesso il 26 marzo 1931 – quelli in cui ne sviluppa e chiarisce le leggi di composizione – Due tipi di popolarità: principi fondamentali per un radio dramma, pubblicato nel 1932 e Modelli di ascolto, scritto nel 1931 e qui tradotto per la prima volta in italiano. In breve, teoria e pratica. Mai come nel corso del suo lavoro radiofonico, Benjamin è particolarmente attento alla griglia analitica marxista.
Nella sua essenzialità, Radio Benjamin riesce in ogni caso a rendere conto di almeno un aspetto specifico del lavoro svolto dal filosofo tedesco in uno degli apparati di comunicazione più significativi della prima metà del Novecento, infatti, lì dove impiegato, Benjamin produceva, non solo conferenze per l’infanzia o sulla situazione letteraria internazionale, ma anche e soprattutto Hörmodell, ossia «modelli per l’ascolto» del tipo Cosa leggevano i tedeschi o Un aumento di stipendio?, in cui, avvalendosi delle risorse sperimentali offerte dalla tecnologia radiofonica, l’autore diventava un vero regista delle voci, le andava drammatizzando in una sorta di teatrino acustico a fini educativi: «Il fine principale di questi modelli è di tipo didattico. L’argomento trattato rientra in quelli delle tipiche situazioni della vita quotidiana. Il metodo adottato consiste nel confronto di esempio e contro-esempi».
Rovesciamenti dialettici
Merito particolare di Radio Benjamin, allora, è proprio la pubblicazione di questo brevissimo testo teorico, Modelli per l’ascolto, stranamente escluso dalle Opere complete – la cui edizione si è conclusa nel maggio del 2014 con l’uscita del volume VIII, Frammenti e Paralipomena (Einaudi, pp. 518, euro 90) – nelle quali si troveranno sì quasi tutti gli ottanta testi radiofonici redatti da Benjamin nel corso della sua collaborazione con le radio di Berlino e Francoforte, come del resto si troverà l’insieme di saggi che avrebbe dovuto costituire una ideale teoria della radio (Teatro e radio, Colloquio con Ernst Schoen, La situazione in radio e Riflessioni sulla radio), ma nelle quali non si trova traccia di questo frammento.
Il quinto testo che completa la raccolta e con cui Radio Benjamin si apre sono le Riflessioni sulla radio. In realtà, è l’unico che salta fuori dalla logica del volumetto che punta, per il resto, sul nesso teoria-pratica in funzione dei modelli d’ascolto. Proprio perché estraneo a questa stringente scelta editoriale, il saggio merita un’attenzione speciale.
Al pari di quella lunga nota della seconda versione tedesca dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936, in cui Benjamin fa della solidarietà lo strumento per sciogliere la compattezza delle masse piccolo-borghesi che, così coese, tendono a reagire in modo spontaneamente reazionario alle crisi economiche, e a ribaltarla in coscienza di classe rivoluzionaria, allo stesso modo, nelle Riflessioni sulla radio l’autore progetta un eguale rovesciamento dialettico, questa volta di un altro soggetto politico, il pubblico: «Solo nella nostra epoca, segnata dall’impressionante sviluppo del consumismo tra i fruitori dell’operetta, dei romanzi e del turismo, si è venuta a creare la massa ottusa e informe, il pubblico in senso tecnico, privo di giudizio autonomo e di un linguaggio che sia in grado di esprimere le proprie sensazioni. Questo imbarbarimento è arrivato al suo punto massimo proprio nel modo in cui le masse ascoltano i programmi alla radio. Ora, però, sembra che la situazione stia per cambiare. Sarebbe sufficiente che chi ascolta si concentri su quello che prova veramente, così da poterlo vivere in maniera autentica e consapevole». Agenti di questa educazione emotiva, estetica e linguistica dell’ascoltatore diventano le stesse risorse tecnologiche messe a disposizione dalla radio: «Quello che molte volte rende intollerabile l’ascolto anche delle trasmissioni più interessanti sono degli aspetti tecnici e formali: la voce, la pronuncia, il modo di esprimersi. Si tratta esattamente di quegli elementi che, anche se di rado, tengono l’ascoltatore incollato all’apparecchio per seguire argomenti magari lontani dai suoi interessi (…) La preparazione tecnica dell’ascoltatore potrebbe svilupparsi solo grazie a questi aspetti tecnici e formali e uscire così dall’imbarbarimento».
Appare evidente che, in sede di teoria dei media e di prassi lavorativa negli apparati di comunicazione di massa, per Benjamin non conta tanto la conquista ideologica del pubblico, sulla quale, solo per fare un esempio, puntava ancora un Adorno nell’intervista radiofonica a Canetti nel marzo del 1962, quanto l’affinamento tecnologico e culturale della sua sensibilità. Con questa impostazione del problema, Benjamin rinnova continuamente l’approccio marxista al mondo delle comunicazioni, dimostrando che, se nella sua opera si dà una teoria dei media, questa è sistemica (radio-cinema) e rivoluzionaria (investe la condizione esistente di attori sociali come l’ascoltatore e lo spettatore, per trasformarla radicalmente).
Una precarietà permanente
Nel racconto Al minuto l’autore, attraverso il personaggio e le vicende del bibliologo, ha trovato il modo per elaborare narrativamente la sua esperienza in radio e trarne, dall’esilio, anche un bilancio finale. Ogni sequenza narrativa la richiama e riassume: il rapporto collaborativo «precario» con l’apparato, la regolamentazione dei tempi di lavoro, il disciplinamento della forza-lavoro ad opera degli strumenti di produzione, la fascinazione per la sperimentazione tecnologica e, improvvisa, la fine di ogni cosa. Letta con Al minuto, la breve raccolta Radio Benjamin viene restituita al significato effettivo che il lavoro radiofonico ha avuto per Benjamin.
Si avvicina, però, il tempo in cui i risultati del dispositivo pratico-teorico benjaminiano smetteranno di riferirsi al suo autore o ai soli specialisti della sua opera, e inizieranno a dipendere da un altro referente. Sarebbe sufficiente, ad esempio, immaginare cosa diventerebbe questo Radio Benjamin nelle mani di uno speaker di una web radio o in quelle di un programmatore di palinsesti, in breve, vedendolo in opera nei nuovi luoghi di lavoro in cui si produce plusvalore simbolico e scommettere con decisione sulla soggettività che ne verrebbe fuori perché, come ci ricorda Benjamin in apertura delle Riflessioni sulla radio, è un «grave errore (…) distinguere per principio tra il conduttore e il pubblico» e poiché, come rammenta nelle conclusioni, l’unica cosa che conta è sempre avere il pubblico dalla propria parte.
(da https://ilmanifesto.it/per-walter-benjamin-la-cattura-dellattenzione-e-una-questione-di-stile/)